Christine de Pizan è stata la prima scrittrice europea eppure la sua storia è praticamente sconosciuta alla maggior parte delle persone.
Non si studia a scuola nell’ambito della letteratura italiana, lei che è stata ponte dell’umanesimo tra Italia e Francia nel basso medioevo. Non la incontriamo tra le pagine di storia anche se è stata biografa ufficiale del re di Francia Carlo V e sua è stata la prima biografia di Giovanna d’Arco, la pulzella di Orléans. “Alla verità”, ha scritto, “preferisco gli esseri viventi. Noi tutti siamo più veri della verità”.
Nicoletta Bortolotti, nel suo libro Un giorno e una donna, ricostruisce la sua storia attraverso le lettere che Christine de Pizan, ormai donna matura, scambia con la figlia Marie, divenuta suora nel convento di Poissy, restituendoci un ritratto di donna, madre e scrittrice estremamente attuale.
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Christine de Pizan, il cui vero nome è Cristina, nasce a Venezia nel 1365. Suo padre era Tommaso da Pizzano, medico-chirurgo e astrologo, e Pizzano era il paese dell’Emilia Romagna dove era nato lui. Sua madre era la figlia di un medico condotto veneziano, ma di lei non vi sono molte informazioni perché, come scrive la stessa Christine, delle madri non si tramanda il nome e cognome, ma solo l’appellativo “madre”. Forse anche per questo lei decide di firmare tutti i suoi libri con il suo cognome, De Pizan, alla francese.
Christine è una donna che ha studiato e per questo a volte è costretta a dissimulare le sue conoscenze, a fingersi meno di ciò che realmente è, per non essere esclusa.
Già allora intuivo che per una donna un destino speciale significava solo esclusione. Talvolta mi chiedevi perché a corte camuffavo il mio sapere, perché spiegavo una tovaglia grezza sopra a tutto quello che avevo studiato. Dovevo far credere ai duchi di essere colta quel tanto che bastava perché mi considerassero utile a ornare le sale reali, ma dovevo porre grande attenzione a non oscurarli. Impiegavo parole semplici quando ne avevo apprese di più complesse, perché non stava bene che una donna possedesse un vocabolario esteso. Sarebbe parsa eccessiva e superba. Se fossi sembrata tale probabilmente mi avrebbero allontanato. Allora avrei perso il lavoro.
Dobbiamo pensare che all’epoca una femmina poteva vivere spensieratamente solo gli anni prima dell’arrivo della pubertà. Da quel momento avrebbe dovuto difendersi dagli assalti fisici degli uomini, dalle manipolazioni e dai raggiri sottesi a matrimoni combinati.
Anche Christine ha avuto un matrimonio combinato. Lei aveva quindici anni, lui, Etienne de Castel, figlio di un ciambellano del re, di famiglia colta, equilibrato e stimato, ne aveva ventiquattro. Un matrimonio combinato, non d’amore, eppure è stato un amore.
Nell loro prima passeggiata lui le chiede quali siano le sue poesie preferite, lei cita Petrarca a memoria, in italiano, ma poi smette, per paura di annoiarlo.
Dopo la nascita di Marie, la sua prima figlia, nei pochi ritagli di tempo a disposizione, aiuta il marito a copiare documenti sulla pergamena, a impaginare fogli, ad assemblare codici che servivano a corte. Fino a quel momento lei i libri li aveva solo letti, ma da quel momento impara anche a farli.
Un giorno il marito invia una sua ballata al concorso reale. È l’inizio della sua carriera di scrittrice, ma non fa in tempo a rendersene conto, a combattere contro quel sentimento diffuso, soprattutto tra noi donne, che non ci fa mai sentire adeguate, all’altezza, perché suo marito muore improvvisamente e lei si ritrova vedova a venticinque anni.
Una vedova con tre figli, una madre anziana da sfamare e senza soldi.
Si rende conto che la Corte dei Conti non le paga lo stipendio del marito e perché doveva pagare lei la rendita sulla torre donata dal re a suo padre? Dov’erano i documenti che attestavano l’eredità di suo padre?
Suo marito non glieli aveva mai mostrati, non per motivi di segretezza o perché non la ritenesse in grado di capire, ma perché si usava così. E ancora oggi, molto spesso, purtroppo le donne non hanno indipendenza economica. All’epoca solo le mogli dei contadini, quelle che avevano una fattoria da mandare avanti, si preoccupavano di amministrare.
Ed ecco cos’ero io, adesso, non contadina, ma vedova senza soldi. Una che non aveva mai lavorato, una scervellata che non sapeva neanche cosa fosse una lettera di cambio. A cosa mi era servito che mio padre mi avesse insegnato a leggere a scrivere, a cosa era servito studiare?
Christine si veste del suo vestito migliore, del coraggio più indomito e della dignità più abbagliante per presentarsi in tribunale, per chiedere di essere ascoltata, per esigere ciò che le spetta. Ma non c’è niente da fare. Gli attestati degli stipendi di Etienne non si trovano e non si può fare nulla nemmeno per le rendite del padre. Almeno così le dicono. E a eli questa risposta non basta.
Christine de Pizan fa causa al Presidente della Corte dei Conti francese. Sa che ci vorrà tempo, molto tempo, sa che le costerà caro, molto caro. Ma è il solo modo per avere indietro quello che le spetta. Tredici anni le serviranno per vincere l’ultimo processo. Ventuno, per avere i suoi soldi.
Ed è la scrittura a sostenerla in tutto questo tempo.
Ricomincia a scrivere ballate d’amore per allietare la corte, lei, che l’amore l’aveva perduto. E i libri li firma tutti così Escript de ma main.
Poi inizia a radunare le sue ballate in un unico manoscritto. Non deve commissionare niente a nessuno perché aveva imparato a farseli da sé i libri. Non aveva difficoltà a copiarli, né a miniare alcuni versi. E, allora, ecco l’idea. Oltre a creare i suoi libri, realizza copie di quelli degli altri, autori di chiara fama, e in questo modo il lavoro per le mani per si raddoppia.
Fabbrica anche più libri contemporaneamente, secondo la richiesta. Le ore della giornata sono scandite da un ritmo serrato: tre ore per un testo, una pausa, e le successive tre per un altro testo.
A chi le diceva di riposare, di rallentare un po’, lei rispondeva: “non me la sento di amare di nuovo”. Questo perché Christine, vedova senza soldi, aveva deciso di vivere del suo lavoro, grazie al suo talento e alle sue capacità. Non le serviva la protezione di un uomo.
“Mi sembra che ti stai imbarcando in un’impresa più grande di te. E per cosa poi?” le ha detto un giorno sua madre, aggiungendo: “Cosa pensi di fare? Di darci da vivere con i libri? Perché non impari a filare i vestiti?”
“Per non morire”.
“Non morire. Di cosa? Di dolore? Solitudine?”
“Di fame”.
E, a tutti gli effetti, al di là dei tanti proclami maschili sull’inutilità per le donne di leggere e scrivere, a Christine la scrittura serviva come a una femmina di leopardo servono i denti.
Non avevano quasi denaro per fare la spesa, dovevano risparmiare fuoco e luce, e lei passava le giornate china sullo scrittoio, in un’occupazione considerata vana e poco adatta a una dama. Ostinatamente e irriducibilmente ferma nel proposito di non risposarsi, né farsi monaca.
Libri di donne non ne se ne erano mai visti. Erano un fenomeno esotico, bizzarro. Una nuova, eccentrica moda della corte. Se pure molti si dilettassero con le sue parole, con le parole di una donna, pochi sarebbero stati pronti ad ammetterlo pubblicamente. Dei suoi libri dicevano fossero “bellissimi”, mai “grandi”. E la chiamavano “abile sarta di storie”, di rado “scrittrice”, mai “artista”.
Nessuna donna prima aveva scritto un’opera satirica, e nessun maschio, prima di allora, aveva tradotto un’opera scritta da una femmina. Christine scrive l’Epistre au Dieu d’amours, Thomas Occleve traduce l’opera in inglese e la sua fama sbarca anche in Inghilterra.
È la parodia del famoso Roman de la rose, la cui seconda parte, ad opera di Jean de Meung, è una sequela di volgarità e insulti contro le donne, con uno stile verboso, pretenzioso e arrogante.
Nella sua opera, Christine, dà voce alla sua rabbia, al suo dolore, alla stanchezza di lottare per far emergere i meriti e veder riconosciuti i suoi diritti.
Il Presidente voleva congedarmi in fretta, scacciare il nauseabondo mal odore di grana, rogna e commiserazione emanato dal mio mantello. Eppure mi usava una cortesia distante, pensava forse che una certa impronta paterna si potesse cogliere anche in questa pietosa circostanza. La mia era una penuria indossata con eleganza, con classe, poco esibita, non gridata come quella di tante vedove che si vedono sottrarre la dote dalla famiglia del marito, o addirittura dai propri parenti, e vengono sbattute in strada senza alcuna assistenza, insieme alla loro pidocchiose nidiata. Tante finiscono a prostituirsi, e quando si ammorbano di sifilide vengono allontanate derise, e quando invecchiano perdono i clienti e mendicano.
“Fra poche settimane è Natale” ha detto il presidente. “Facciamo passare i festeggiamenti e poi tornate qui, Christine”.
“I festeggiamenti… Non posso attendere, presidente. Voi capite. Ho una famiglia da mantenere. Una madre anziana, una nipote e tre figli. I miei fratelli sono partiti per Bologna in cerca di lavoro. Mia madre, mia nipote e i miei figli sono a mio carico. Ho bisogno dei soldi di mio marito. Noi non faremo alcun festeggiamento, capite”.
“Mi dispiace, se potessi aiutarvi lo farei. Ma prima di Natale non è proprio possibile. E, se volete un consiglio, rilassatevi un poco. Fate festa anche voi. Immagino che non siate nell’animo, dopo quanto ti è accaduto. Ma… Siete una bella donna. Giovane… Non dovreste avere difficoltà a trovare qualcuno disposto a offrirvi un pranzo. E ora scusatemi, ma altre visite”.
Christine non resiste. E passa all’attacco. Denuncia la mancanza di rispetto, le discriminazioni, le umiliazioni. Afferma che le donne sono pari in intelletto e virtù e che i pregiudizi non sono altro che “sporche pietre nere e grossolane”.
La casta dei maschi dell’università si sente offesa e indignata e chiede pubbliche scuse “per l’errore evidente, per la pazzia o demenza, a causa della sua presunzione e del suo impulso di donna”, aggiungono tuttavia che si mostreranno caritatevoli e concederanno la grazia, ma non prima di averle comminato una salutare penitenza.
Christine non ci pensa proprio a chiedere scusa, a chi poi? E per cosa? E commenta così: “la finissima punta di un temperino o di un coltellino è capace di forare un sacco grande e pieno di cose vili e materiali”.
Nonostante, o forse proprio, per la polemica sul Roman de la rose, i suoi libri cominciano a farsi più lunghi, fitti e complessi. Prende tre copisti al suo servizio e crea una piccola bottega di libri. È allora che riceve l’incarico di scrivere la biografia del re Carlo V, detto Il Saggio.
Ma noi la vogliamo ricordare per un altro libro il Livre de la cité des dames: un libro-città, come La città di Diodi Sant’Agostino, ma una città fondata sulle donne, con le donne, per tutti e tutte. Donne forti e coraggiose ne reggono le fondamenta, donne sagge e sapienti, che hanno potuto studiare, la popolano, ispirate da esempi di donne virtuose. Tra queste non ci sono solo sante e martiri, ma anche donne come Didone e Medea, donne la cui unica colpa è stata quella di aver amato troppo.
Nessuna città, nemmeno Parigi, ci aveva mai concesso la parola. Non abitavamo nessun mondo e nessun libro, e nessun libro aveva riscritto il mondo secondo noi, e ci aveva scritte. Con buon senso e, forse, prudenza, la città che le tre dame – Dama ragione, Dama giustizia e Dama rettitudine, mi avevano comandato di costruire era il nostro primo libro casa dove potevamo vivere senza snaturarci.