5 libri di brividi e misteri per 11-13 anni da leggere questa estate

31 Luglio 2023 | Guide ai regali

Continuiamo a parlare di brividi e misteri e scopriamo 5 libri per ragazzi e ragazze 11-13 anni da leggere questa estate: morti improvvise e inspiegabili, maledizioni e leggende popolari di streghe spietate, patti con il diavolo che non danno la possibilità di tornare indietro, sparizioni e un passato pieno di ombre che emerge prepotente. E niente sarà più come prima.

Il genere horror, il giallo e il thriller sono molto amati dai ragazzi e dalle ragazze e anche i lettori e le lettrici meno forti accettano di esplorare queste storie, molto spesso animati da una curiosità travolgente che non lascia il tempo di pensare all’impegno della lettura. Sono storie dal ritmo serrato, in cui lo svelamento è centellinato sapientemente in mezzo alla suspence, accompagnato ogni volta dalla tensione e dall’eccitazione mano a mano che ci si addentra nella storia. In un periodo, come l’adolescenza, in cui si è in cerca di emozioni forti e gli ormoni sono sulle montagne russe, facile immaginare il motivo di tanto fervore per queste storie!

Per questa Guida alla lettura dei libri di brividi e misteri abbiamo preparato un segnalibro per lettori e lettrici coraggiosi che ti regaliamo insieme all’acquisto del libro, sia in libreria, che nello shop. Puoi anche scaricarlo qui e stamparlo a casa.

In più, per ogni titolo trovi:

  • Traccia audio da ascoltare;
  • Breve descrizione della trama, dell’ambientazione e dei personaggi principali;
  • Foto dell’interno.

Se sei alla ricerca di altri spunti di lettura, ecco l’elenco delle Guide già pubblicate:

 

Cominciamo!

Brucia la strega

Di Teo Benedetti per la casa editrice Pelledoca.

Ascolta la traccia audio o continua a leggere.

Mordi la sua carne e bevi la sua vita.

Maria sentì le gambe tremare e si trovò a fare un passo indietro, ma la voce la ributtò in avanti, spingendola verso il bambino.

È quello che vuoi, lo sai. Bevi il suo sangue.

Le labbra della ragazza si dischiusero leggermente e la lingua sfiorò i denti: per un secondo, sentì il bisogno di soddisfare quel richiamo. Poi si tappò la bocca con una mano trattenendo un conato di vomito e si piegò in avanti respirando a fatica. Il bambino spalancò gli occhi, di un grigio chiaro, e iniziò a piangere disperatamente.

«Maria?» Gabriella le posò una mano sulla schiena. «Che cos’hai?»

«Portami via, ti prego» implorò digrignando i denti. «Portami via, ora!»

La nonna la strinse con un braccio e recuperò i sacchetti con la mano libera. Si congedò bruscamente da Angela e trascinò via la nipote. Occhi incuriositi, da ogni angolo della piazza, osservarono la scena: un’anziana che tirava a sé una ragazza a tal punto da sollevarla da terra, ma nessuno si fece avanti per chiedere che cosa fosse successo o se servisse aiuto.

Appena svoltarono l’angolo, entrando nell’ombra del vicolo, Gabriella lasciò la presa e cercò lo sguardo della nipote.

«Come stai?»

«Non lo so» fu la risposta.

«Maria, guardami. Ho bisogno di sapere che cos’è successo.»

L’ordine espresso con tono leggero fece breccia nella tensione della ragazza che alzò gli occhi lentamente e fissò la donna.

«Niente” minimizzò mordendosi la lingua. «Forse solo un giramento di testa. Fa caldo.»

Gabriella annuì, ma il suo sguardo era serio, intento a studiare ogni piega espressiva.

«Nient’altro?»

«No.»

«Sicura?»

«Sì.»

Maria si voltò infilandosi le mani in tasca, tenendo il sacchetto della spesa penzolante sul fianco sinistro e congedandosi con un mormorio. I suoi piedi iniziarono a spingerla lontano dalla nonna che rimase a fissarla.

«Non va bene. Non va per niente bene» sussurrò Gabriella.

Quando fu lontana dalla vista, Maria si appoggiò con un braccio contro il muro, nascose il volto e avvertì in bocca il sapore del ferro.

Iniziò a singhiozzare.

Perché piangi? Disse la voce nella sua testa. Non è favoloso scoprire chi sei veramente?

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Facciamo un passo indietro. Era il 30 aprile 2021 e per la prima volta si riuniva il nostro gruppo di lettura: 16 adolescenti in carne ed ossa e 4 virtuali che si riunivano nel parco del nostro quartiere, distanziati e in mascherina, impazienti di ritrovarsi dal vivo. In un salotto letterario en plein air hanno ascoltato le storie scelte per loro, si sono rilassati sull’erba, hanno commentato, fatto domande, sgranocchiato qualcosa da mangiare e alla fine hanno scelto il primo libro da leggere insieme. E hanno scelto una storia che parla di maledizioni, di streghe e di un piccolo paese dell’entroterra sardo che si chiama Lunamadre: è la storia di una ragazza, di tre ragazzi e di un’estate che non potranno mai più dimenticare. Un racconto che ci ha tenuto con il fiato sospeso il tempo di un’estate, che ci ha chiesto di affrontare e guardare in faccia la paura, ma che ci ha spinto a continuare, pagina dopo pagina, incoraggiandoci e facendoci sentire parte integrante del gruppo di amici protagonisti.

E ora? Bentornati e bentornate a Lunamadre (qui puoi recuperare la presentazione di Lunamadre).

Lunamadre, paese di streghe, di leggende e tradizioni. Da quelle parte ce ne sono tantissime. Ad esempio, si dice che il settimo figlio di sette fratelli sia un divinatore, cioè una persona capace di vedere il futuro. Come Giuseppe, il fratello gemello di Giacomo, nuovi compagni di classe di Maria. Mentre, invece, che la settima di sette sorelle sia una strega. Proprio come Maria.

Giacomo ha capito che Maria è diversa, da molto tempo raccoglie tutte le informazioni possibili sulle streghe. Racconti che aveva sentito dal nonno paterno durante le notti d’estate, nel fresco del dopocena, poco prima di andare a letto. Da quel momento si era appassionato e aveva cercato tutti i modi per togliere di mezzo una strega, ma mai aveva trovato una risposta.

Donne maledette, povere anime, creature potenti le streghe. Maria ha ricevuto un dono che non voleva. Deve imparare a gestirlo, a non lasciarsi avvolgere dall’oscurità in preda alla rabbia, a cercare la luce. Non c’è un destino scritto. Nessuno sa esattamente cosa accadrà, ma ognuno di noi può vivere e scegliere la propria strada.

 

I lucci della Via Lago

Di Giuseppe Festa per la casa editrice Salani.

Ascolta la traccia audio o continua a leggere.

 

Trentatré giorni.

Non uno di più, non uno di meno.

Vi racconterò solo questo, della mia vita.

Trentatré giorni di giochi che si sono trasformati in incubi. Freddi e spietati come i binari che ora mi portano lontano.

Via da casa.

Via dal lago.

Via da lei.

Tutto è iniziato il quattordici giugno. Sembra passato un secolo, invece vedo ogni cosa davanti a me come se fosse ora. Passo da casa, giusto il tempo di dire a mia madre che l’esame è andato bene, sì, insomma, che è andato. Mi grida che è quasi pronto, ma io corro fuori con pinne, maschera e archetto. Non ho tempo di mangiare, io e Brando abbiamo appuntamento al pontile. Dobbiamo festeggiare la fine delle medie con un’impresa epica.

È da tre giorni che vedo Pinna Mozza al palo davanti alla darsena. Un’ombra a filo d’acqua. Il persico trota più grande della Storia.

Ci tuffiamo dal pontile e nuotiamo fino alla darsena, costeggiando il muretto. L’acqua è fredda e limpida. Ci fermiamo sul masso piatto, sotto l’acqua di pietra. Studiamo gli ultimi dettagli. Dobbiamo sbrigarci, fra un po’ c’è Italia-Polonia, l’esordio della nazionale al mondiale di Spagna. Un cenno e ci tuffiamo. Sotto di noi il fondo di pietra scompare in un verde cupo. Nuotiamo una accanto all’altro, io e Brando.

Un colpo di coda e Pinna Mozza scompare nel buio sotto di noi. Io e Brando ci guardiamo increduli. Abbiamo mancato quel colosso da un metro di distanza, da non credere.

«Ci provo io» dice Brando, e va giù a candela.

Dieci secondi.

Venti.

Brando non viene su. Nessun problema, lui è più resistente dei lucci. C’ha le branchie da qualche parte, l’ho sempre pensato.

Quaranta secondi.

Cinquanta.

Troppo, anche per lui.

Prendo il respiro e torno giù.

Giro intorno alla base del palo e all’albero sommerso. Sotto di me, la strada sul fondo scende verso il largo e scompare nel buio.

Dov’è Brando?

Un banco di alborelle mi schizza davanti alla faccia.

Vengo su. Forse ha sentito il battello passargli vicino ed è riemerso a riva.

Mi tolgo la maschera e lo cerco tutt’intorno.

Non c’è.

Urlo il suo nome.

Il Cigno spinge i motori al massimo e riparte.

La corrente dell’elica mi porta lontano e io urlo ancora il suo nome.

Brando è rimasto sotto.

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Mauri è convinto che Brando non sia morto, ma che sia scomparso, anzi, che si sia nascosto per fare uno scherzo. Gli sembra impossibile che sia annegato davvero, anche se tutti gli ripetono di accettarlo e basta. C’è qualcosa che proprio non gli torna e continua a sfuggirgli. Nei giorni seguenti, lentamente la vita ricomincia a scorrere con il suo ritmo indolente da mezza estate tra giochi inventati al momento, gare di nuoto, battute di pesca, primi baci e partite di pallone improvvisate nella piazza. Poi cominciano a comparire dei bigliettini con messaggi che solo Brando poteva conoscere. E la firma sembra proprio la sua, stessa calligrafia.

L’ombra del dubbio si insinua nei pensieri e gonfia il petto di speranza tra gli amici, spingendoli oltre quello che è consentito, oltre quello che avrebbero pensato mai di riuscire a fare.

Avventura, mistero e amore si intrecciano nelle notti d’estate del 1982, mentre l’Italia si sta facendo grande una partita dopo l’altra, fino alla storica finale.

 

Il ponte dei cani suicidi

di Daniele Nicastro per la casa editrice Pelledoca

Ascolta la traccia audio o continua a leggere.

Martino abito nel borgo antico del paese. La famiglia Bosonin si è trasferita poco prima che lui iniziasse le scuole medie e i suoi genitori ripetono sempre che lo hanno fatto per evitare il caos della città e respirare l’aria di montagna. Ovviamente lui non se l’è mai bevuta. Sono andati lì per colpa sua e sempre per colpa sua, la madre a lasciare il lavoro dei suoi sogni: fare l’editor ovvero quell’inseparabile spalla di autori e autrici che, con il suo aiuto, realizzavano storie memorabili.

Il borgo è attraversato da quattro viuzze: la prima scende verso il quartiere popolare, la seconda si allarga abbastanza da far passare le auto, la terza è fatta di scalini, infine la quarta è tutta di ciottoli disconnessi che diventano un ponte di pietra vecchio di duemila anni.

Il ponte fa da sfondo a ogni immagine. A Martino, però, non piace nulla di quel ponte: la forma, l’odore, quell’aria minacciosa che lo mette a disagio. Forse per la macabra leggenda che lo ha reso famoso o perché persino di giorno riesce ad assumere un’aria spettrale, come se la luce non osasse sfiorarlo.

Martino ha tredici anni ed è sordo da quando ne aveva otto. Da quel momento, aveva iniziato ad avere la sensazione di essere seguito da una strana presenza. E, ormai, la percepisce ovunque. In casa, nei vicoli angusti del borgo vecchio o nella scorciatoia dell’orto botanico. Una volta, mesi fa, si è sentito spiato in camera sua mentre leggeva sdraiato a pancia in giù: occhi appuntiti sulla nuca, vibrazioni e vuoti d’aria improvvisi, come se qualcuno gli stesse passando velocemente dietro la schiena. Ovviamente, quando l’aveva detto a sua madre, era finito da uno specialista. Alma: più che una madre è un concentrato di tante cose: cuoca, lavatrice, andiamo alla visita, ubbidisci, copriti bene che fa freddo, non correre che sudi e ricordati di mettere in carica le protesi acustiche altrimenti sai come finisce. Iperprotettiva ai massimi livelli.

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Ma c’è una leggenda, la leggenda dello Sfregiato, il capo dei cani vaganti. Si dice che i cani vaganti siano figli o nipoti di cani abbandonati che hanno perso il contatto con l’uomo. Pertanto, si procurano da mangiare senza l’aiuto di nessuno, come predatori selvatici. È sempre stata solo una leggenda alla quale nessuno dava troppo credito. Ma in paese i cani hanno iniziato a gettarsi dal ponte, il Ponte del Diavolo. Non c’è modo di evitarlo, sembrano non esserci connessioni, né spiegazioni. I randagi sono stati i primi, poi è arrivato il turno dei cani domestici. Giulia, Edo e Giorgio hanno visto i loro cani buttarsi giù dopo una folle corsa.

È lì che vede la creatura Martino. Un vortice di tenebra si allarga i piedi del ponte. Le ombre convergono in prossimità della luna roccia, si agitano, si con torcono su sé stesse. D’improvviso emerge il contorno di una creatura con denti e artigli affilati. Il muso e la gola sono solcati da cicatrici profonde. I peli del collo puntano al cielo come gli aculei di un istrice.

Sta ferma.

Respira.

Osserva. Dal profondo di due orbite vuote. Pozzi di oscurità.

Martino vorrebbe chiedere alla creatura se è lei che lo segue, ma le parole sono macigni in gola. Troppo pesanti. E poi quella creatura non può esistere, deve essere frutto della sua immaginazione: se ne andrà appena finirà di agitarsi. In quel momento il mastino muove gli artigli sulla pietra e la testa del ragazzo viene invasa da un orribile stridio di unghie. Come è possibile? Le protesi sono ancora nella custodia. E la custodia è ancora chiusa nella sua mano. Martino sente qualcosa che gli si agita, dentro. Deve andarsene, fuggire più lontano che può. Allora perché non riesce a muoversi? Perché ha i piedi ancorati al terreno? Il suo corpo non risponde a nessun comando. Intanto il crepitio di unghie continua per quello che gli pare una dolorosa eternità. Poi, ad un tratto, qualcuno pronuncia una parola. Martino. Il suo nome chiaro e distinto.

«Che vuoi?» chiede, il cuore che martella.

Sono venuto a prenderti.

Gli argini del torrente tremano, sassi e detriti ruzzolano in acqua e una transenna al fondo della piazza si ribalta per terra. Quel mostro sembra vivo reale almeno quanto lui. E lo sta aspettando, anzi è venuto a prenderlo.ma allora perché non è ancora fuggito?

Ti sei bloccato? chiede la creatura.

Una raffica di vento sfreccia da sotto il ponte lo investe, scompigliandogli i capelli. Il terreno palpita sotto le scarpe.

Ti sei bloccato, Martino?

La voce di risuona potente nella scatola cranica.

«Ehi, ti sei bloccato? Martino!»

Dal nulla emergono gli occhi celesti di Serena.

Serena sembra essere l’unica a non aver paura di andare a fondo della vicenda, ma nessun adulto le crede, a parte sua nonna Elvira, una Walser che conosce le più antiche leggende e tradizioni, anche quelle più oscure.

Martino è spaventato, arrabbiato e deluso per il senso di impotenza che lo blocca. Riesce a sentire il ruggito cavernoso della creatura che echeggia nella valle e lo chiama a sé. La voce ha il timbro di ossa rotte, non somiglia a nessun’altra cosa che abbia mai sentito. O immaginato. E dice “Non. Ci. Provare”.

Una storia che dialoga intimamente con il lettore, mettendo subito le cose in chiaro: il punto non è non avere paura, ma andare avanti nonostante la paura.

Le paure non provengono solo dall’esterno, sottoforma di nemici, ma anche dall’interno: la paura di affrontare il mondo e l’ansia di non sapere quali effetti i cambiamenti avranno su di noi e sulle persone a cui vogliamo bene può schiacciarci e costringerci a vivere la vita in un angolo, nella speranza che nulla ci colpisca, ci ferisca, faccia del male ai nostri cari.

I primi mesi senza poter sentire, Martino guardava i ragazzi correre verso la scuola chiedendosi cosa ne sarebbe stato di lui con un corpo fallato. Sarebbe cambiato qualcosa con i suoi amici? Sarebbe stato preso in giro? O peggio, compatito? Poi c’erano i suoi genitori. Li sentiva che litigavano fino a tardi dopo averlo mandato a letto. E se uno dei due se ne fosse andato? La colpa sarebbe stata sua. Da quando Martino però riesce a vedere le sue paure nella voce della creatura c’è qualcosa di diverso. Un tremore.

Eh sì, non c’è un altro modo: per affrontare le proprie paure, bisogna avere il coraggio di guardarle in faccia. Ed è in quel momento che Martino capisce che può farcela.

 

La casa del contrabbandiere

di Hannet Huizing, con la traduzione di Anna Patrucco Becchi per la casa editrice La nuova frontiera Junior

Ascolta la traccia audio o continua a leggere.

 

Se avessi saputo già allora che avevo un nonno, sul serio! Tuttavia lo venni a sapere solo il giorno in cui morì. O meglio il giorno dopo, il due gennaio.

Io e mio padre dovevamo smontare l’albero di Natale. Stavamo sbrogliando il filo con le lucine, quando il cellulare di mio padre si mise ad abbaiare. Mi avevano sempre detto che mio padre e mia madre erano orfani, che avevano perso i loro genitori quando erano giovani. Mi avevano mentito. Avrei voluto dire qualcosa, ma mia madre mi aveva zittito. L’avevano fatto per proteggermi, aveva detto mia madre. Ma in che modo?

«Molto semplice. È stato un uomo terribile. Per noi non esisteva più. In sostanza questa è un po’ tutta la storia». Tutta la storia? Sì. Mio padre non intendeva rivangare il passato.

Almeno l’avrei conosciuto il giorno del funerale.

«Non ci sarà nessun funerale. Ha donato il proprio corpo alla ricerca scientifica. Adesso starà da qualche parte all’università, in una cella frigorifera».

Feci di tutto per non immaginarmelo. Quindi se avessi studiato medicina, avrei finito per incappare in mio nonno. Che schifo! Be’ tanto non volevo fare il medico.

«A proposito» aggiunse mio padre «abbiamo un’eredità. Abbiamo ereditato la casa in Brabante».

Non ne parlammo più. Di mio nonno. Della casa. Due mesi dopo, però, qualcosa cambiò.

Tutto cominciò con un messaggio di mio padre. Se potevo tornare a casa SUBITO, perché volevano parlarmi di una cosa.

«Traslochiamo? Cosa significa? Io non voglio assolutamente traslocare. Non voglio andarmene da qui».

Mio padre guardò mia madre e poi di nuovo me. «Provvisoriamente andremo a Orpel».

«A Orpel? In Brabante? Nella casa del nonno? Ma è lontanissimo!»

Mio padre iniziò ad elencare i vantaggi. Davvero, in momenti così ci vorrebbe un fratello o una sorella per guardarsi e alzare gli occhi al cielo.

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Alcune persone hanno un’infanzia felice e altre no. Sono cose che succedono.

Il nonno di Ole era un fabbro e tutto il giorno lavorava in officina. In casa aveva trovato delle casse di legno con dentro degli aggeggi, strane cose di ferro a quattro punte.

Piedi di corvo. I contrabbandieri li spargevano a centinaia per strada, in modo da tenere alla larga i doganieri. Se si butta un piede di corvo per terra, case sempre con una punta in alto.

Ecco perché quella casa la chiamavano Casa del piede di corvo.

Ecco che cos’era il nonno. Un contrabbandiere.

Contrabbandiere di burro. L’oro grasso, lo chiamavano un tempo. Nel secondo dopoguerra in Olanda c’era una montagna di burro. In Belgio invece era l’opposto. Se tutto quel burro olandese a basso prezzo arrivava sul mercato belga, i contadini non avrebbero guadagnato più niente. Il governo olandese e quello belga si accordarono: se volevi esportare burro olandese in Belgio, dovevi pagarci un bel dazio sopra. I contrabbandieri avevano fiutato il modo di fare soldi: compravano il burro a basso prezzo e lo rivendevano al doppio. Ogni anno milioni di chili di burro finivano in Belgio. Ci guadagnarono un sacco di soldi. Ma chi erano i contrabbandieri? Chiunque vivesse vicino al confine. E se non contrabbandavi eri un vigliacco. Oppure un doganiere. I doganieri erano impiegati della dogana che davano la caccia ai contrabbandieri. Ci fu una vera e propria guerra e ci furono anche dei morti.

Lasciarsi il passato alle spalle, metterci una pietra sopra. Ma certi segreti non si lasciano addomesticare e scalpitano nei cassetti dopo che sono rimasti rinchiusi troppo a lungo. “Le colpe dei padri non ricadano sui figli” si dice, perché niente è già scritto e non è tanto chi siamo, ma le scelte che facciamo la misura che può definirci. E per la famiglia di Ole è arrivato il momento di fare i conti con il proprio passato, riprendere in mano la penna e scrivere la propria storia. La storia della propria famiglia.

 

La prova 

Di Luisa Mattia, pubblicato dalla casa editrice Pelledoca

Ascolta la traccia audio o continua a leggere.

Quel giorno c’erano suoni che rimbalzavano da un palazzo all’altro e sembravano voler inondare la piazza assolata. Voci ripetute, aspre, un susseguirsi di scalpiccii. C’era da immaginare che proprio lì, nel cortile della “Residenza Rose blu”, si fosse scatenata una acchiapparella. C’era chi scappava e chi gli andava dietro. Quello che scappava aveva paura.

Le voci si intrecciavano al dialogo della televisione del terzo piano: un poliziotto americano incalzava un uomo sudato, che correva su una strada ripida.

La ragazzina del terzo piano guardò il cortile. Vuoto.

Anzi no. C’era un andirivieni di gatti. Andavano tutti verso un angoletto polveroso, con una finestrella chiusa da una rete. Una mano di vecchia, lunga ed elegante, coperta da un guanto di merletto, legato al polso con un bottoncino di madreperla, sbucò dalla finestrella e allungo un piattino di carta. Era la mano de “la giudìa”, “la tedesca”. O “la matta”. O “la strega”.

La porta si aprì, poi si richiuse di botto. E c’era lui, un ragazzone impacciato, con un accenno di barba che lo rendeva buffo, lanciato per le scale. Saltò gli scalini a due a due come un canguro, impugnando un vecchio bastone da montagna che chissà dove aveva preso. E scappò.

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Nelle prime due pagine, con un ritmo serrato e incalzante siamo già nel cuore della storia e abbiamo conosciuto i personaggi principali. La tedesca, Else Cohen, i capelli bianchissimi raccolti in una crocchia, i guanti, le calze color avorio e le scarpe di vernice. Lillo, un bambino nel corpo di un ragazzo, il viso bello, potevi fargli fare tutto quello che volevi a Lillo, tanto non se ne accorge. Tanto gli scemi non hanno sentimenti. O sì? Serena, anche per lei Lillo è sempre stato “lo scemo”, niente più di un giocherello. E ci sono anche Cristiano e Marchetto, due giovani senza regole, che hanno già perso la capacità di sognare e immaginare un futuro più luminoso.

La tedesca è caduta nel fiume e per lei non c’è stato più niente da fare. C’erano Lillo e Serena in riva al fiume, Lillo scappava e Serena usciva dall’acqua annaspando. Dall’altra parte del fiume Cristiano e Marchetto avevano visto tutto: l’avevano vista bene, era caduta era caduta nel fiume la strega. Per un po’ aveva provato a tenersi a galla, ma poi s’era incantata, era diventata ferma come il gesso, gli occhi fissi. Se ne era andata giù. E amen.

Non è solo un thriller investigativo, ma una storia che ha radici lontane e si porta addosso un carico di dolore, frutto di un silenzio colpevole, dell’indifferenza, dell’abbandono dei più deboli al loro destino. Siamo a Roma. È Estate. A Roma in estate si andava al fiume per rinfrescarsi, si mangiava la grattachecca e si faceva il bagno. Anche allora la città in estate si svuota, ma non del tutto. La vicenda si svolge negli anni 70, ma va ancora più indietro nel tempo, negli anni delle persecuzioni e delle leggi razziali. Quest’anno ricorrono gli 80 anni del rastrellamento del ghetto di Roma: il 16 ottobre del 1943 in 1259 – 689 donne, 363 uomini e 207 bambini – furono costretti ad abbandonare le loro abitazioni, a lasciarsi alle spalle tutte le cose e i ricordi di una vita.

A indagare sulla morte di Else Cohen è il giovane Maresciallo Nebbia. È la sua prima indagine. È si trova seduto nella cucina di casa Innocenti cercando di capire da che parte cominciare a parlare con Lillo, che non si decideva a guardarlo. Forse Lillo l’aveva spinta alla tedesca, l’aveva spinta e magari neppure la guardava mentre moriva. Perché era scemo, Lillo, e magari non aveva tutti i sentimenti. Il personaggio di Lillo è complesso e non tutti, forse solo il maresciallo Nebbia, riescono a apire come funzioni per poter parlare, per poter ascoltare, per potersi mettere nei suoi panni. Ma piano, piano questo atteggiamento comincia a cambiare. Nonna Ida dice: “Quello ha poco cervello” e aggiunge “ma il cuore non gli manca. A noi, che la testa ci funziona, certe volte mi pare che il cuore ci funzioni poco. È come un bello addormentato”

La Prova è un “giallo” ma un tantino disobbediente alle regole. Oltre a svelare il mistero, pagina dopo pagina, la storia toglie il velo davanti agli occhi di ogni personaggio, alla ricerca della compassione, di quella capacità di entrare nella sofferenza degli altri, senza giudicare, sentendosi parte dell’umanità e della vita. Un caleidoscopio di esperienze che si intrecciano tra di loro, all’inizio in modo indecifrabile e poi così saldo da non poter essere divise.

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